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Lo so che, nelle intenzioni di questo blog, si vorrebbe, non dico divertire ma, almeno, distrarre con leggerezza – e sarebbe davvero un successone se così fosse.
Ma, scrivendoci dentro come milioni di persone fanno tutti i giorni sulle proprie pagine on-line, viene la curiosità di capire in quale grande flusso di parole si è finiti a esternare e di che cosa si è parte e se questa, poi, faccia davvero un tutto.
Da due venerdì sto parlando di una cosa che ho definito “nostalgia di massa” e che, forse, qualcuno meno suonato di me ha spiegato meglio e magari scritto bei libri sull’argomento, giungendo a conclusioni diametralmente opposte alle mie e che mi ridicolizzano con gli amici.
Pazienza, non me la prendo; per far colpo, non sono mai andato in giro dicendo di essere il nuovo Popper – vabe’ è capitato solo una volta e la tipa ha detto che avrebbe voluto essere sua figlia – allora, perché insistere ancora su questo argomento?
Perché, secondo me, ogni tanto, dovremmo dedicare qualche minuto a pensare a quello che ci sta succedendo: come società o insieme di singole persone che si ritrovano smarrite, senza più una comune identità che già non sia stata bistrattata da politica, economia o dalle proprie faticose convinzioni acquisite dall’esperienza, dall’età, dalla tradizione o da un insieme di tutto questo e altro ancora e messe regolarmente in crisi, ogni santo giorno.
E poi, perché mi pare che nessuno abbia voglia di mettersi lì davvero a parlarne in un modo che non passi, pacatamente, dall’euforico all’apocalittico.
La nostalgia perduta di cui dicevo è quella che tutti noi proviamo di fronte agli avvenimenti che nella Storia sono avvenuti intersecandosi con la nostra storia minima e personale rendendoci, probabilmente, tra le ultime generazioni che vedono da vicino questo intersecarsi, almeno per quanto riguardava il momento esatto in cui accadeva.
Ieri, avere una memoria condivisa, persino con l’atto stesso del venire a conoscenza, tutti insieme e nello stesso momento, di uno specifico avvenimento, ha contribuito a renderci quello che siamo, quello che proviamo e persino quello che pensiamo è stato condizionato dai tempi e dai modi dei rituali dell’informazione.
Parlo dell’informazione perché è il tema più evidente ma potrei dire la stessa cosa per l’acquisizione di libri, della musica, della visione di un film: l’insieme stesso della cultura di massa.
Oggi, ecco cosa sta cambiando: i rituali sono finiti o quanto meno, oramai ci sono tutti i mezzi per renderli estinti.
Senza i “rituali di un ordine prestabilito” nascono ogni giorno modi e sistemi che ci ispirano dal liberarci dalle vie finora percorse avendo alla base una idea d’indipendenza dalle strutture preordinate e dalle logiche conclamate, spesso per vuota tradizione.
Non è solo la parabola discendente che certi evangelisti del mese hanno facilità a proclamare – anche perché è difficile smentirli, toccando certi argomenti nei quali vanno fortissimi.
Non il sacrosanto avvento di internet e tutto quello che ha comportato da vent’anni a questa parte; forse non è nemmeno un fattore tecnologico a star mutando tutto.
I rituali finiscono perché non riescono a rispondere a una semplice domanda, spontanea e tremendamente concreta, che vorremmo rivolgere non si sa bene a chi ma, con meno cattiveria e demagogia di quanto si possa credere e con l’unico desiderio di ricevere una risposta, per una volta, onesta.
Tutto quello che sapevamo, come lo abbiamo saputo e per quali motivi, oggi, a che serve?